sabato 6 dicembre 2008
Osvaldo Bagnoli: il mago della porta accanto
Articolo pubblicato per gentile concessione del sito Storie di Calcio
Di lui non si può dire che sia stato un innovatore tattico o un roboante condottiero di uomini.
Eppure pochi come Osvaldo Bagnoli hanno saputo sottolineare con gli esiti del proprio lavoro l'importanza dell'allenatore.
Smentire l'assioma che vorrebbe ininfluente il tecnico, senza la presenza di adeguati fuoriclasse. Il Verona 1984-85, ultimo intruso della storia all'esclusivo desco metropolitano dello scudetto, non conteneva fuoriclasse, ma un gruppo di buoni giocatori, nessuno dei quali, oltre quella parentesi, ha annoverato in carriera grandi conquiste da primattore. Eppure Osvaldo Bagnoli, con quel suo fare ammiccante e riservato, riuscì a portarlo allo scudetto, superando rivali che i fuoriclasse invece li avevano ben esposti in vetrina.
Osvaldo Bagnoli è stato un tecnico ruspante, ma nel senso migliore del termine. Niente a che vedere con certi abborracciati saperi calcistici di provincia. Piuttosto, la fedeltà alle umili origini portata come una medaglia al pari dell'etichetta vagamente ironica applicatagli all'epoca dei primi successi in Serie A: "il mago della Bovisa". Alla Bovisa, quartiere proletario di Milano, doveva i natali, e al sapore schietto degli anni giovanili, spesi a giocare a calcio con gli amici a piedi nudi sui prati, come in una vecchia canzone di Celen-tano, faceva risalire l'amore per il pallone. Figlio di operai, Osvaldo Bagnoli venne notato nell'Ausonia dal talent scout Malatesta, che lo portò al Milan. Era una mezzala di buona tecnica e dal tiro schioccante, ma il Milan dei Liedholm, Nordahl e Schiaffino non poteva riservargli che uno spazio ridotto, sufficiente tuttavia per la firma sotto lo scudetto del 1956-57. Il suo giro d'Italia lo portò tre stagioni a Verona, una all'Udinese, tre al Catanzaro, tre alla SpaL, una ancora all'Udinese prima della chiusura da libero, cinque stagioni di fila nel Verbania, in C, a far da chioccia a numerosi talenti.
Fu il direttore sportivo Carlo Pedroli, deus ex machina di quella formazione, a intuire in Bagnoli qualità di allenatore. Lo consigliò alla Solbiatese, stessa categoria, sicché non appena smessi i panni di giocatore l'uomo della Bovisa si ritrovò addosso quelli di tecnico. L'avventura si interruppe all'ottava di ritorno, quando mandò fuori dagli spogliatoi il presidente entrato nell'intervallo per consigliargli una mossa tattica. Poche ore dopo, Bagnoli assaporava il gusto acre del siluro, che sta alla carriera di allenatore più o meno come la pioggia al mese di marzo. In giro aveva lasciato qualche amico, come Pippo Marchioro, compagno di strada nel Milan e poi a Catanzaro, che lo chiamò come aiutante di campo nel Como, in Serie B. Qui Bagnoli si applicò anche ai giovani e con tanto entusiasmo da rifiutare l'anno dopo di seguire Marchioro al Cesena. Fu la svolta della carriera, perché quando il tecnico in prima, Beniamino Cancian, venne silurato dopo dodici giornate, i dirigenti lariani pensarono proprio a lui. Il Como era ormai spacciato e il nuovo tecnico non ne cambiò il destino, tuttavia i quindici punti in diciotto partite convinsero i dirigenti a insistere su di lui per la stagione successiva. Sesto posto in B, seguito l'anno dopo a Rimini da una salvezza col sapore della grande impresa.
Quando gli arrivò la chiamata del Fano, due categorie più sotto (C2), Osvaldo non ritenne di dover fare troppo il difficile. In fondo, il mestiere gli piaceva e non c'era bisogno di coltivare esagerate ambizioni per farlo bene. Invece a Fano inseri la presa diretta. Colse il primo posto e la C1, guadagnandosi il ritorno in B, a Cesena, dove prima sfiorò e poi mise a segno il salto in A. Stava diventando uno specialista e come tale lo assunse il Verona, che puntava giusto alla promozione in A. Formidabile motivatore di uomini, sapeva di ognuno quale tasto toccare per spingerlo verso il meglio. Di solito le sue squadre partivano piano, per poi carburare grazie ai suoi meticolosi ritocchi e chiudere alla grande.
Il Verona volò in Serie A e qui confezionò una stagione monstre, conquistando il quarto poston e mancando la Coppa Italia d'un soffio, dopo aver battuto la Juventus nella finale d'andata.
Era un Verona coraggioso, illuminato dalla classe di Dirceu e dalla larghezza di vedute del tecnico: che il fantasista brasiliano se l'era ritrovato in rosa senza averlo chiesto e poi vi aveva modellato il volto dell'attacco, rinunciando a una punta a fianco di Penzo, per favorirne gli inserimenti offensivi. Soprattutto, però, era la squadra dei grandi risorti.
Personaggi gettati nel cestino della mediocrità dai club di provenienza e rivitalizzati fino a misure da campioni dal maestro di panchina. Il lavoro di cesello dell'artigiano Bagnoli produceva capolavori: il mediano Volpati, approdato a Verona credendosi a fine carriera e poi per sei anni tra i più continui difensori della squadra; il terzino Luciano Marangon, alfine compiuto come incursore mancino dopo le promesse nel vivaio della Juventus; il portiere Garella, trasformatosi da sgangherato collezionista di papere in funambolico acrobata; il tornante Fanna, fiore mai del tutto sbocciato nella Juve, risorto come imperiale fantasista delle corsie laterali; il regista Di Gennaro, promessa mancata della Fiorentina; il libero Tricella, scaricato dall'Inter. In pratica, il Verona aveva avuto un solo straniero, Dirceu, dato che l'altro, lo stopper polacco Zmuda, si era subito sfasciato finendo in infermeria. Nell'estate del 1983 il tecnico approvò la politica del club, che non aveva soldi da spendere: cessione degli elementi più pregiati, Dirceu al Napoli, Penzo alla Juventus, Oddi alla Roma, e nuova infornata di elementi da riciclare. Lo stopper Silvano Fontolan, gran colpitore di testa (fratello maggiore dell'attaccante Davide), il ventenne attaccante tascabile Galderisi, funambolo dell'area di rigore finito a immalinconire tra le riserve della Juve dopo gli exploit iniziali, e il centrocampista Bruni, scartato dalla Fiorentina. Il Verona debuttò in Coppa Uefa e visse una nuova stagione da guastafeste delle grandi, finendo al sesto posto.
A quel punto, furono sufficienti due mosse per chiudere il mosaico. Nell'estate del 1984, mentre approdava in Italia Diego Maradona, il Verona si affidava a due stranieri di fascia medio bassa.
Hans-Peter Briegel, gigantesca statua a rotelle, nella Nazionale tedesca agli Europei come difensore puro aveva impressionato solo per la forza fisica; l'attaccante danese Preben Larsen-Elkjaer, meglio conosciuto solo con il secondo dei due cognomi, quello della madre, aveva ben figurato nella rassegna continentale, ma si proponeva come un'incognita. Partito per il solito onorevole campionato di rincalzo alle grandi, il Verona restava in testa dalla prima all'ultima giornata, macinando un calcio vigoroso e spettacolare.
Bagnoli trasformava Volpati in terzino marcatore, faceva di Briegel un mediano incursore di devastante efficacia e in avanti combinava l'agile potenza di Elkjaer ai guizzi del piccolo Galderisi.
La Juve di Platini uscì presto dal giro, l'Inter di Rummenigge duellò a lungo invano, il Torino col suo rush finale conquistò solo il secondo posto. In un panorama ricco di stelle, lo scudetto del Verona rappresentava il premio all'umiltà e alla forza creativa dell'allenatore.
Che spiegava così la propria filosofia tattica: «Il calcio è un gioco semplice, non sono indispensabili astruserie come la zona o il pressing. L'importante è avere la fortuna di trovare gli uomini giusti per metterli poi nei posti giusti; lasciandoli liberi di esprimersi».
La simbiosi tra la città e il tecnico, ormai da tempo stabilitovisi con la famiglia, non poteva essere più completa.
Nella festa dello scudetto, facevano furore gli "Osvaldini", piccoli bulldog di terracotta con la divisa del Verona, omaggio alla ruvida bonomia di un uomo capace con la sua semplicità di conquistare tutti.
Ai complimenti, reagiva con semplici alzate di spalle. Per il trionfo, riusciva a stirare appena un lieve sorriso. Parlava con gli occhi, più che con la bocca.
Quando il campione del mondo Bearzot confessò che il modulo della Nazionale si riconosceva in quello del Verona, il mago della Bovisa si schermì: «Io Bearzot non lo conosco tanto, avrei bisogno di andare a cena con lui. Non so che carattere abbia, mi è difficile spiegare paragoni del genere».
Non era posa, come il tempo avrebbe poi confermato, ma la sincerità di un uomo con il terrore delle esagerazioni. Forse anche per questo il suo Verona non uscì più dalle righe, subito eliminato dalla Juve in Coppa dei Campioni (soprattutto per le nefandezze dell'arbitro Wurz), ma pure al riparo dal rischio di crolli repentini così facile per le provinciali salite all'improvviso sul tetto della gloria.
Altre quattro stagioni, quasi sempre di buona levatura, Bagnoli trascorse alla guida del Verona, prima che una grave crisi sfaldasse le basi finanziarie del club. Nell'estate del 1989 l'ombra del fallimento si allungò sulla società. Venne compicciata in extremis alla bell'e meglio una rosa di giocatori, grazie soprattutto a prestiti di altri club, con la destinazione della retrocessione già segnata sul foglio di partenza.
Bagnoli avrebbe potuto astenersi, ascoltando le sirene che dà più d'una piazza importante cantavano per lui. Ma preferì vivere fino in fondo la parabola della squadra, che alla fine retrocesse, ma all'ultimo tuffo e dopo aver sfiorato il miracolo.
Il distacco da Verona non fu facile. Bagnoli avrebbe voluto restare per edificare la risalita, ma la nuova dirigenza gli diede il benservito. Lo chiamò a Genova Aldo Spinelli, avendone in cambio in pochi mesi un capolavoro.
Pur senza ingaggiare grandi nomi, grazie a Bagnoli il Genoa riebbe dopo anni una fisionomia tecnico tattica solida e spettacolare.
Con la difesa imperniata sul libero Signorini, il centrocampo affidato alle geometrie di Bortolazzi e alle incursioni di fascia di Eranio e Ruotolo da una parte e Branco dall'altra, con l'attacco micidiale del gigante Skuhravy complementare al piccolo e guizzante Aguilera, i rossoblu si piazzarono a uno storico quarto posto, anticamera della prima, storica partecipazione alla Coppa Uefa. Ancora una volta, dietro il consueto pudico ritegno teso a minimizzare le teorizzazioni per esaltare la qualità dei giocatori, c'era un disegno tattico preciso, evoluzione di quello dei felici tempi veronesi.
Il modulo misto già esaltato da Bearzot veniva orientato al pieno sfruttamento delle caratteristiche degli uomini a disposizione: la difesa contava su un libero fisso, Signorini, e due marcatori spesso a zona, Torrente e Caricola, così da consentire ampia possibilità ai due terzini, Eranio a destra e Branco a sinistra, di diventare laterali a tutti gli effetti aggiungendosi ai tre uomini di centrocampo, l'esterno Ruotolo e i due registi Bortolazzi e Onorati. Era il 5-3-2.
L'anno dopo, la cavalcata in Europa assunse toni epici, ben sintetizzati dalla vittoria sul Liverpool nella tana di Anfield Road, per arrestarsi solo in semifinale di fronte allo strapotere dell'Ajax di Bergkamp e Litmanen destinato al successo finale. I tempi del mago della Bovisa erano maturi per il grande club metropolitano. Impossibile pensare che la sua carriera, a un passo dalla vetta, fosse a due dal chiudersi. Bagnoli tornò nella sua Milano, ma dalla parte nerazzurra, fermamente voluto da Pellegrini nell'estate del 1992.
Il compito, tutt'altro che semplice, era ricostruire sulle macerie lasciate dalla rivoluzione fallita di Orrico. Le premesse per il caos, secondo tradizione nerazzurra, non mancavano: quattro stranieri (Shalimov, Sammer, Pancev, Sosa), mentre il regolamento ne consentiva solo tre. Quattro primedonne poco disponibili ad arrugginire in tribuna. Pancev dopo la prima esclusione non si riprese più, Sammer addirittura a fine anno se ne tornò in Germania. Lui, Bagnoli, continuava a forzare i soliti imbarazzati sorrisi e a lavorare al tornio da artigiano, mentre sull'altra sponda il Milan di Capello radeva al suolo la concorrenza con la spavalderia del rullo compressore.
Ancora una volta, a una partenza in sordina fece seguito una crescita costante e inarrestabile, come il lavoro di rifinitura di Bagnoli prese a produrre frutti. In sette giornate, lo svantaggio dai rossoneri scese da undici a quattro punti (allora la vittoria ne concedeva solo due), rendendo decisivo lo scontro diretto, chiuso in un pareggio.
L'Inter dovette accontentarsi della seconda piazza, un bel trampolino per la stagione successiva.
Ma le basi appena gettate già saltavano in aria per il blitz di metà febbraio, con cui Pellegrini era riuscito a ingaggiare a suon di miliardi il conteso olandese Bergkamp assieme al regista Jonk, inserito nel pacco dai mercanti dell'Ajax. Bagnoli aveva trasformato Ruben Sosa in un micidiale cacciatore di gol, ma alla refrattarietà di Bergkamp ad ambientarsi in Italia dovette arrendersi.
Offrì di malavoglia spazio all'altro tulipano dalla difficile pronuncia («il Gionc», lo chiamava) e a febbraio, con la squadra al sesto posto, venne cacciato da Pellegrini.
Quanto fosse lungimirante quella scelta, seppure a fronte di risultati sotto le attese, lo avrebbero dimostrato i rischi di retrocessione corsi dal suo successore, Giampiero Marini. Ma quella porta in faccia gli suonò come uno schiaffo insopportabile. «Via, si dimetta» gli aveva chiesto Pellegrini. «No, si vergogni» aveva risposto lui. Per chiudersi poi in un ostinato mutismo, mai più interrotto se non per frugali risposti dal suo esilio dorato.
Senza polemiche, senza rancori, con la serenità dei nervi distesi: «L'Inter mi ha mandato in pensione in anticipo, ma non voglio darle troppe colpe. Ero ben predisposto.
I primi mesi da esonerato mi dimostrarono che stavo bene anche senza il calcio attivo: stare in campo mi piaceva, ma non sopportavo più il contorno».
E se qualcuno ancora oggi bussa alla sua ruvida scorza di milanese amabile dalla sincerità scontrosa, ripete:
«Io sono un uomo fortunato, perché ho giocato a pallone e ho potuto mettere da parte qualcosina. Se io oggi sono un pensionato sereno, lo devo al calcio. La mia vita è stata molto impegnata e, se tornassi indietro, forse cercherei di trovare qualche spiraglio per il tempo libero. Oggi che di tempo ne ho, capisco quanto è importante.
Ma non parlatemi di sacrifici, per favore. I sacrifici, quelli veri, li fanno gli operai».
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